Recensione a L. Greco, L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea, Liguori, Napoli 2008

In base a un pregiudizio assai duro a morire, riscontrabile non soltanto a livello di “manualistica” ma perfino nella critica più rigorosa, il tentativo anti-metafisico apportato da David Hume nel Treatise of human nature costituirebbe in fondo un tentativo di demolizione della filosofia stessa, con protagoniste assolute la nozione di ‘causa’ e quella di ‘io’. Rispetto alla prima – da Hume sottratta al dominio della giustificazione razionale per essere riconsegnata a quello della processualità biologica, al pari della respirazione o della manualità prensile –, il filosofo scozzese è di frequente additato come colui che avrebbe confutato la validità del procedimento induttivo e reso gli esseri umani schiavi di una «fede irrazionale» (Popper). Quanto alla nozione di ‘io’, la celebre teoria humiana del fascio di percezioni, caratterizzata dall’intento di desostanzializzare quella nozione, avrebbe come inevitabile ricaduta «l’impossibilità di indicare l’io, di individuarlo in qualcosa di fermo e invariabile» (p. 7). Non solo: dal momento che Hume, nelle restanti pagine del Trattato, incurante della sua stessa opera di demolizione, persiste nel riferirsi all’io come a qualcosa di solido e di concreto, la sua filosofia sarebbe con ciò tacciabile della più grave inconsistenza e contraddittorietà.